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Franco Dionesalvi
disegno che raffigura un bambino che tocca la luna
Ediizioni Coessenza - € 12,00
Il libro è distribuito sul territorio nazionale: puoi ordinarlo in libreria. Oppure puoi consultare la casa editrice: www.coessenza.org


altri titoli nella sezione NARRATIVA:
•L'ultimo libro di carta
•Racconti erotici
•Libro della morte e delle cento vite
•La maledizione della conoscenza •Storie di computer e di fantasmi

1

Si chinò a raccogliere il pezzo di carta, lo spolverò, lo raddrizzò; lo baciò. “Questo è il mio trofeo”, mormorò raggiante, “e guai a chi me lo tocca!”. Giorgio Spaccadito si avviò lungo il largo marciapiedi accalorato dal pomeriggio afoso, stringendo fra le dita l’autografo di Franco Rizzo, l’ala destra che aveva debuttato in nazionale.
C’erano voluti diversi appostamenti, per raggiungere il gioiello agognato. Fin da quando Pilerio Perito gli aveva detto: “E’ lì, è lì che abita. In quel palazzo arancione, al quinto piano”. Io ero incredulo: possibile, mi dicevo, che un personaggio così famoso potesse essere così a portata di mano, che incrociasse le passeggiate gli sguardi i destini di due anonimi spiantati come noi? Pure devo riconoscere che quella volta anche un emerito cacciaballe come Spaccadito aveva azzeccato la mira. Ma ciò concesso il resto non fu affatto facile. Un po’ poté la vergogna, un po’ il pudore: più volte ce lo vedemmo scoccare sotto gli occhi, e noi…noi abbassammo lo sguardo. C’è da contare pure i ritiri, le partite, gli impegni ufficiali… insomma, ne passò di tempo prima che si presentasse una nuova occasione. Ma quella ci vide decisi, pronti ad affrontare ogni ostacolo che la nostra tempra di adolescenti cittadini ci ponesse innanzi, pur di raggiungere la meta. Ed eccoci salire a grandi salti le scale, avvicinarci alla porta con occhi socchiusi sudati…ma non c’è il nome al campanello? Per forza, è un personaggio, i nomi non li mettono…bussi tu, busso io, insomma ci siamo…ma, ahinoi, che smacco quando ci disse adesso sono stanco, devo riposare, tornate domani!
Cosa gli costava poi, quanto tempo avrebbe perso, volevamo soltanto un autografo, che ci voleva? Beh, certo, non è facile, hai visto quando scatta sulla destra e scarta a sinistra l’avversario? Cose così non sono da tutti, ci vuole talento, sono doni rari… sì, va beh, ma un autografo, cosa gli costava? Tu non capisci, non hai idea di cosa vuol dire una vita da campione.
Giorgio Spaccadito era lungo e magro, aveva il mento prominente, e costantemente si bagnava le labbra di saliva. Fra il cortile in cui di solito ci intrattenevamo e il palazzo del campione non c’erano che pochi isolati. Ossia l’edicola di Migliorini, la casa di Giovannino Arturo, il balcone di Mariuccia, la caserma dei vigili; e naturalmente il campo di calcio.
Ma riattraversammo tutto d’un lampo, quell’altra volta che infine Rizzo ci diede l’autografo, anzi due. Spaccadito lanciava balzi verso il cielo, urlava la sua conquista ai passanti, sfidava le macchine alle traverse che poi lo clacsonavano innervosite, e insomma il mondo era magnifico e ci sorrideva mite e promettente; peccato soltanto che Mariuccia non stava affacciata a guardarci. “Lo vuoi? – mi sfidò Spaccadito – se lo vuoi, ogni metro che passa devi darmi cento lire di più”.
“Perché dovrei volerlo? Io ho già il mio”.
Ma lui insisteva, a farmelo annusare e poi alzarne ogni minuto il prezzo. Così mi convinsi. E’ vero, avrei voluto anche il suo. Non l’autografo, no. Il suo urlo di gioia. Perché il mio era già passato.

 

5

Dovete sapere che una volta non era come adesso, che è in corso una trasmissione televisiva iniziata una quindicina di anni fa che finirà con l’esplosione della terra. O con la perdita della capacità visiva da parte del genere umano; o con la scomparsa dello stesso genere per far posto ad una razza diversa.
A quel tempo le trasmissioni televisive iniziavano e finivano; e c’era la sigla con le nuvole che annunciava l’inizio e la sigla (che scorreva all’incontrario) che annunciava la fine. E prima e dopo, niente. Io però accendevo spesso la televisione prima, sul secondo canale. Dove le trasmissioni iniziavano intorno alle cinque del pomeriggio. Però non era sicuro: quando trasmettevano le gare ciclistiche, dipendeva dall’andatura che tenevano i corridori. Loro iniziavano a trasmettere quando mancava una ventina di chilometri all’arrivo. Però l’orario preciso non si poteva sapere. Io allora accendevo in anticipo, e tenevo acceso per paura che la trasmissione iniziasse quando non me l’aspettavo (era accaduto, delle volte) e io perdessi le fasi cruciali. Così guardavo le puntine bianche e grigie che tremolavano nello schermo, e facevano rumore. Attendevo che ricominciassero le mirabolanti avventure di Eddy Merckx. Io gli tifavo contro; non sopportavo quelli che vincevano sempre, e tifavo sempre per gli altri che però non vincevano quasi mai. Giorgio Spaccadito invece tifava per Merckx. A volte lo guardavamo insieme, il ciclismo, e sullo sfondo di Adriano De Zan che leggeva interminabili elenchi di corridori in gara Spaccadito, con la stessa voce rauca, diceva: “Scegli tre, cinque, dieci corridori. Fino a dieci, te ne do da scegliere. A me invece ne basta uno solo, Eddy Merckx. Scommettiamo tutto quello che vuoi su chi vince il Tour de France. Duecento lire, cinquecento lire, anche mille lire, se ce l’hai. Tanto vinco io, sono già mie, ho già vinto. Ha vinto Spaccadito, ha vinto Eddy Merckx, il più grande”.
Ed io volevo sempre che perdesse. Ma quello lasciava gli avversari che affannavano sui pedali, e sgusciava via come neanche ci fossero, come non sentisse la fatica. Un pomeriggio, però, lo ritrovai a pieno schermo che piangeva, piangeva come una fontana. E quella volta avrei dovuto festeggiare, ma non me la sentivo. Perché non era stato sconfitto sulla strada; era stato il doping, l’avevano trovato positivo. “Non è possibile – si lamentava Spaccadito – che ne avrebbe dovuto fare un campione come lui dell’anfetamina? Quello era già mezz’ora avanti a tutti, l’anfetamina semmai serviva agli altri. No, vedrai, te lo dice Giorgio Spaccadito, quello è stato vittima di un complotto, si è trattato di un sabotaggio”.
Intanto le palline bianche e grigie continuavano ad agitarsi, sempre uguali. E persino quel rumore, che io solo in casa riuscivo ad apprezzare, cominciò a diventarmi fastidioso. Così andai in cucina, dove c’era la lavatrice nuova, l’attrazione di quei giorni. Aveva diversi programmi di lavaggio, ed io solo avevo studiato bene il libretto di istruzioni, ed ero in grado di spiegare la casistica e vantaggi e svantaggi di ogni programma. Il tasto “centrifuga”, poi, era il più emozionante; quando si azionava, la lavatrice si agitava così tanto che quasi iniziava a camminare lungo la stanza; e bisognava tenerla, sennò a lungo andare avrebbe finito con lo scontrarsi col frigorifero, e col buttar giù il portafiori che solo da pochi giorni ci aveva regalato la signora Sassi. La mamma stava piegando le lenzuola a quattro, tutte ravvolte come un bastoncino. Poi le infilava dentro l’oblò. “Basta, brontolò zia Maria, che se la carichi troppo non vengono bene”. Nello sportellino sistemò un bicchierino di detersivo, quello bianco miscelato con tanti granelli blu. Il resto toccò a me: girare la manopola fino al numero giusto, e via! I primi minuti erano noiosi, non accadeva niente. Ma poi il rigoglio dell’acqua annunciava che lo spettacolo della spuma del mare stava per cominciare.